domenica 28 giugno 2015

“Grassa e Dotta” la cucina bolognese è anche un po’ “Santa”: Tovaglie a quadri e vino rosso a due passi da Piazza Maggiore


Ogni città ha un soprannome: Roma, la Città eterna; Venezia, la Serenissima; Genova, la Superba; nessuna, però, ne ha tanti come Bologna: la Dotta, la Grassa, la Rossa.
Sede dell’università più antica del mondo occidentale, risalente al 1808, la città è da secoli crocevia di scambi culturali ed enogastronomici.
Per il Professor Montanari, docente ordinario di Storia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, gli aggettivi “dotta” e “grassa” sono da sempre l’uno il braccio destro dell’altro.
Bologna è “dotta” perché “grassa”, in quanto solo l’abbondante quantità di cibo poteva assicurare il nutrimento di una popolazione studentesca molto grande per l’epoca. È “grassa” perché “dotta”: la presenza massiccia in città di ragazzi provenienti da tutta Europa ha permesso che questi trasmettessero le loro esperienze gastronomiche, arricchendo e contaminando quelle bolognesi.
Lo studio importa cultura del cibo ed esporta un’immagine di sé forte. Questo fa nascere prima all’esterno, probabilmente nella Parigi del XII secolo, e poi all’interno della città stessa il mito di Bologna grassa.
 In questa città, ricca di osterie, taverne, ristoranti e bistrot, in via Urbana 7/F, all’incrocio tra il Collegio di Spagna e via D’Azeglio, a due passi da Piazza Maggiore, si trova la Trattoria della Santa, ideale per trascorrere tra un tortellino e un bicchier di vino, qualche ora in buona compagnia. Le due salette interne, il porticato esterno, i piccoli tavoli coperti da tovaglie a quadri, le sedie impagliate e pochi fronzoli sulle pareti hanno quel non so che di casa. Il personale è cordiale, dalla cucina arrivano voci di chi muove i fili da dietro le quinte e invitanti odori di arrosti e bolliti.















Sul menù piatti della cultura bolognese, la sfoglia della pasta fresca è tirata a mano, ci sono i tortellini in brodo, ottimi, tortelloni di ricotta al ragù, gramigna, lasagne verdi, abbondanti e molto condite. Per i secondi la cotoletta, gustosa, arrosti misti e baccalà.
La scelta può anche cadere su qualche piatto fuori menù, un polletto al forno con patate croccanti, in questi casi, non dispiace affatto. 
 Se non diffidate di un consiglio personale, allora, ordiante ad occhi chiusi tagliatelle ai funghi porcini e per secondo fegato ai ferri o burro e salvia, o una bella cotoletta alla bolognese. Poi mi direte cosa sono!
Buoni i dolci, da non perdere la coppetta di crema di mascarpone, una delizia, grassa, proprio come la città che fuori dalle quattro mura della trattoria continua a sfamare corpo e mente di tanti giovani bramosi di trovare cultura e buon cibo, se possibile, a prezzi modici.









Provincia: Bologna
Comune: Bologna
Indirizzo: via Urbana 7/F
Telefono: 051 330415
Chiuso: domenica
Orario: mezzogiorno e cena
Coperti: 50 + 20 esterni
Prezzi: 25 - 30 euro
Carte di credito: tutte


Anche in questo caso devo chiedere scusa, le foto le ho prese direttamente dalla pagina Tripadvisor dedicata alla trattoria.






lunedì 15 giugno 2015

Un ragù per pensare.

La cucina della nonna, le ricette della nonna, "buono peró quello che faceva mia nonna", nonna, nonna, nonna. Da anni ormai la nonna è entrata nelle cucine di tutti, chef e non, e fatica a venirne fuori.  
Ma chi è "la nonna "? Esiste davvero? Qual è la vera cucina della nonna? 
 
Il mio Professore Massimo Montanari (Il cibo come cultura, Editori Laterza, Bari, 2006, pp. 159-160) scrive: "le storie che abbiamo raccontato stanno a ricordarci che ogni cultura, ogni tradizione, ogni identità è un prodotto della storia, dinamico e instabile, generato da complessi fenomeni di scambio, di incrocio e contaminazione. I modelli e le pratiche alimentari sono il punto d'incontro tra culture diverse, frutto della circolazione di uomini, merci, tecniche e gusti da una parte all'altra del mondo [...] La ricerca delle radici, quando è fatta con metodo critico e non dietro la suggestione di impulsi emotivi, non giunge mai a definire un punto da cui siamo partiti bensì, al contrario, un intreccio di fili sempre più ampio e complicato a mano a mano che ci allontaniamo da noi. In questo intricato sistema di apporti e di rapporti non le radici ma noi siamo il punto fisso: l'identità non esiste all'origine, bensì al termine del percorso. Se proprio di radici vogliamo parlare, usiamo fino in fondo la metafora e raffiguriamoci la storia della nostra cultura alimentare come una pianta che si allarga a mano a mano che affonda nel terreno, cercando la linfa vitale sin dove riesce ad arrivare, insinuando le sue radici appunto in luoghi il più possibile lontani, talvolta impensabili. Il prodotto è alla superficie, visibile, chiaro, definito, siamo noi. Le radici sono sotto, ampie, numerose, diffuse: è la sotira che ci ha costruiti".
La cucina della nonna, come la "tradizione" (dal latino trado - ere: trasmettere, passare, donare, affidare, confidare, assegnare), è quella cosa che è arrivata fino a noi, quella cosa che tramandata di bocca in bocca arriva al presente mutando la sua forma. Letta nel pensiero come un discorso che guarda al passato, la tradizione (e la cucina della nonna) nasce nel presente ed è il risultato di ciò che l'uomo è riuscito a salvaguardare, è il Patrimonio. Le radici sono le origini, l'identità è ciò che contraddistingue e per questo motivo la tradizione è innovazione, è il frutto di quello che è stato creato e modificato per arrivare a noi.  
La cucina della nonna, dunque, è un'idea recente, costruita sulla ricerca d'identità e delle origini. È stata creata e modificata per giungere a noi e per essere l'espressione di una cucina abbondante, tipica e genuina,  la sublimazione alle mancanze che continuamente ci si trova ad affrontare. È un valore aggiunto che spesso si dà ai ricordi di una vita andata e che difficilmente tornerà.
Proprio perché difficilmente potrà essere rivissuta, la cucina della nonna sopravvive, cambiando faccia e adattandosi a mode, tempi e gusti. Muta mantenedo vive le caratteristiche che mettono in moto il treno dei ricordi. 


A proposito di ricordi, ieri per me è stata una giornata particolare. Ho aperto gli occhi e guardandomi allo specchio mi sono accorta che erano molto pesanti, malinconicamente tristi. Ho camminato a lungo e poi mi sono fermata a pensare. Volevo ascoltare per un'ultima volta le voci dei miei nonni e scorrendo la rubrica telefonica mi sono accorta che ho ancora i loro numeri di casa, numeri di telefoni che non suonano più, perché nessuno più potrà rispondere.  Lacrima.

È difficile davvero non farsi coinvolgere dai sentimenti quando si pensa a persone che hanno lasciato, a loro modo, qualcosa nella nostra vita. Anche io potrei dire di avere avuto una nonna cuciniera, associare a lei la mia idea della cucina di casa, ma se dovessi scegliere davvero un piatto che possa rappresentarla al meglio, in realtà farei molta fatica, troppi ricordi, troppe lacrime. 
 
Nei giorni più tristi, come quello di ieri, mettermi ai fornelli è quanto più di terapeutico possa esistere. Dalle lacrime vere e negate con la scusa della cipolla, ai sorrisi di gioia del rubare di nascosto con dito della crema pasticcera, la cucina è davvero un'ottima valvola di sfogo,e in questo periodo, ne ho davvero bisogno. 

Ho vogli di cucinare e di tagliatelle al ragù, ho voglia di una cucina lenta, che dia modo di riflettere, di pensare. Invito gli amici, tagliatelle al ragù per cena, è deciso. 

Di ragù ne esistono mille versioni, quello bolognese è stato "canonizzato" nel 1982, ma cosa dire di quello napoletano? Le ricette sono simili: sedano, carota, cipolla, macinato misto, vino, passata, lunghissima cottura. La differenza sostanziale consiste nel fatto che nella versione "sudista", che io amo molto e che preferisco, si aggiungono pezzi di carne interi di manzo, maiale o salsiccia che, una volta terminata la cottura della salsa, si tirano fuori e si mangiano per secondo. Una goduria. 
Ho optato per il bolognese, ma per restare un filino più leggeri, ho evitato di aggiungere alla base del soffritto la pancetta o il guanciale.

Ingredienti per quattro persone:

400 gr. di tagliatelle all'uovo Pastificio Garofalo
2 carote
1 cipolla 
1 coste di sedano
350 gr di carne macinata mista manzo/maiale
vino rosso per sfumare
2 bottiglie di passata di pomodoro Mutti
1/2 litro brodo di carne
Sale 
Pepe
Olio extra vergine d'oliva, 
Parmigiano Reggiano

Iniziate facendo un trito di sedano carota e cipolla e nel frattempo preparate del brodo di carne, mezzo litro (io in questo caso mi sono servita di quello granulare Star, per far prima). Fate scaldare in una casseruola un filo d'olio e buttateci dentro il trito di verdure. Abbassate la fiamma e fate appassire dolcemente per una decina di minuti. Passate adesso alla carne, aggiungetela alle verdure, alzate leggermente la fiamma e sgranatela bene. Versate del vino per sfumare (scegliete voi se bianco o rosso, io preferisco il rosso) e fate evaporare per bene. Io di passata ne ho aggiunta abbastanza, perchè volevo che avanzasse un po' di ragù per poterlo poi mettere da parte, ma comunque sappiate che il sugo deve ridursi tantissimo, più della metà del livello originale, quindi non abbiate paura, osate!
Aggiungete la passata, mescolate bene e iniziate a diluirla con il brodo. Abbassate  la fiamma, coprite e aspettate il bollore, rimestando di tanto in tanto. Quando sentirete i primi gluglu, lasciate il coperchio leggermente aperto, in modo che la salsa abbia modo di iniziare a restringersi. 

Prendetevi tempo, il ragù ve ne chiederà.
Io l'ho fatto andare per quattro ore e verso la fine ho regolato di sale e pepe.
Il ragù può essere preparato anche il giorno prima, basta solo riscaldarlo un po', ma se volete mangiarlo il giorno stesso, allora quando sarà arrivato alla giusta consistenza e avrà riempito tutte le stanze della vostra casa del suo inconfondibile profumo, fate bollire l'acqua per la pasta, salatela e buttate le tagliatelle che dovranno cuocere per 7 minuti. 
Scolate e condite la pasta in un bel vassoio da portata, una bella grattugiata di Parmigiano e Buon appetito!



martedì 9 giugno 2015

Una cacio & pepe.

In questi giorni ho decisamente poco tempo per dedicarmi al blog. Le lezioni del Master stanno per terminare, ci sono gli elaborati da consegnare e io devo ancora capire di che stage dovrò morire. Il problema principale è che sono un'eterna indecisa e forse troppo curiosa, ho la capacità di farmi prendere bene da qualsiasi cosa e questo mi porta ad avere spesso una gran confusione in testa. Ti prego Atena aiutami tu!

Detto questo e prima di correre in Sala Borsa dal mio amico David, voglio lasciarvi la ricetta di un piatto che amo molto e che di solito lascio preparare al mio barbuto del cuore. Semplice ma non del tutto perchè il buon risultato dipende dalla qualità del pecorino e dalla vostra bravura di renderlo cremoso e mantecare bene la pasta.

Oggi: CACIO E PEPE.

Piatto appartenente alla cultura gastronomica romana è composto da tre ingredienti: tonnarelli, pecorino romano e pepe, tanto pepe. C'è chi aggiunge panna, chi olio, e io... preferisco affidarmi alla bravura e alla romanità di uno chef che di santo ha anche il nome Arcangelo Dandini (se cercate nel web non sarà difficile trovare un suo tutorial). 

Bene, il tempo stringe e io devo quasi andare!

Ingredienti per 4 persone:

400 gr di pasta (a Roma usano tonnarelli o rigatoni, noi in questo caso abbiamo usato i mezzi rigatoni del Pastificio Cavalier Cocco)
150 gr di pecorino romano 
Acqua di cottura q.b.
Pepe nero q.b.

Mettete a bollire abbondante acqua salata e quando è il momento buttate la pasta. Nel frattempo in una ciotola capiente versate il pecorino grattugiato e una macinata di pepe, non troppo, mi raccomando.
Versate poco a poco sul formaggio un mestolo di acqua di cottura e amalgamate bene con un cucchiaio. Dovrete ottenere una crema soffice, aggiungete altro pepe e mescolare bene.
Quando la pasta sarà "al chiodo", un momento prima di "al dente", scolatela bene e buttatela nella ciotola. Amalgamate con cura e servite la vostra cacio e pepe nei piatti.






mercoledì 3 giugno 2015

Panza(S)nella

Ok, è vero, la pausa pranzo è appena passata. Si, è presto per pensare alla cena, ma io ho un'idea veloce da condividere con voi e lo voglio fare adesso. Il mio pranzo di oggi, colorato, fresco e leggero.

Finalmente anche qui a Bologna sembra che sia arrivata la "bella stagione" e, non so se succede anche a voi, ma ogni anno per me è sempre la stessa storia: la mia pigrizia è direttamente proporzionale all'aumento delle temperature, e quando lo stomaco inizia a farsi sentire mi trascino stile zombie dalla scrivania in cucina in cerca di qualcosa di sfizioso e non impegnativo.
All'apertura del frigo e alle grida di "fame" dello stesso, inesorabilmente vuoto, mi accorgo di una timida melanzana che fa capolino dagli abissi dell'ultimo scompartimento. Accanto lei: un pomodoro, un barattolino di pomodori secchi sott'olio, mezza cipolla rossa, una banana e del prezzemolo. OTTIMO, qualcosa ne verrà fuori! Eliminando a priori la banana, mi soffermo su melanzana, pomodoro, cipolla... melanzana, pomodoro, cipolla... melanzana, pomodoro, cipolla. Idea: PANZANELLA!

Tutti sanno che la Panzanella è uno dei piatti da inserire nell'albo delle tipicità fiorentine e che con tutta probabilità porta questo nome per l'unione di pane e zanella (la zuppiera) o più semplicemente per panzana (pappa).

La diatriba sugli ingredienti che compongono il piatto va avanti da secoli: chi lotta per il solo pane toscano, cipolla rossa, pomodoro; chi aggiunge olive, formaggio; chi taglia tutto a cubotti e chi sostiene che sia una vera e propria pappa. Io non sono in grado di poter dare una risposta, ma devo ammettere che avevo solo del pane azzimo in dispensa, la cui unica caratteristica in comune col toscano è: l'essere insipido. Per il resto è sottile, croccante e di lieviti e molliche non ne vuol proprio sentir parlare. Io lo mangio anche a colazione, con del miele o della marmellata è leggero e gustoso. Provatelo!


A questo punto non mi resta che lasciarvi la mia "Panzanella degli avanzi" e se non dovesse piacervi il nome, liberi di chiamarla come vi pare! ;)

Ingredienti per 4 persone:
4 o 8 fette di pane azzimo (dipende da quanto sono grandi e dalla fame che avete!)
2 o 4 (stesso discorso di sopra) pomodori di San Marzano
1 melanzana (se è piccola prendetene 2)
1 cipolla rossa (meglio di Tropea)
4 filetti di pomodori secchi sott'olio
succo di mezzo limone
Olio EVO
Sale q.b.
Peperoncino
Pepe

Realizzare questa ricetta è davvero molto semplice. Per prima cosa lavate bene tutte le verdure, tagliate a fettine sottili la cipolla rossa e immergetele in una soluzione di acqua (mezzo bicchiere) e il succo di mezzo limone. Tagliate a cubotti le melanzane (quella che ho utilizzato era tenera e con poca polpa, quindi ho evitato di metterla sotto sale) e fate scaldare in una padella antiaderente un filo d'olio. Quando è caldo buttateci la melanzana, abbassate la fiamma, regolate di sale e coprite con un coperchio. Nel frattempo tagliate i pomodori e privateli dell'acqua di vegetazione.
Tagliate anche i pomodori secchi che avrete ben scolato dall'olio.
A cottura ultimata delle melanzane, quando si sono ben dorate, spegnete il fuoco ed iniziate a comporre la panzanella. Su un piatto da portata adagiate le fette di pane azzimo su cui farete cadere la dadolata di melanzane. Aggiungete man mano i filetti di pomodori freschi, secchi, le fettine di cipolla ben sgocciolate e qualche fogliolina di prezzemolo.
Non resta che condire con filo d'olio extra vergine, sale, peperoncino e pepe.

Buon appetito!