domenica 28 giugno 2015

“Grassa e Dotta” la cucina bolognese è anche un po’ “Santa”: Tovaglie a quadri e vino rosso a due passi da Piazza Maggiore


Ogni città ha un soprannome: Roma, la Città eterna; Venezia, la Serenissima; Genova, la Superba; nessuna, però, ne ha tanti come Bologna: la Dotta, la Grassa, la Rossa.
Sede dell’università più antica del mondo occidentale, risalente al 1808, la città è da secoli crocevia di scambi culturali ed enogastronomici.
Per il Professor Montanari, docente ordinario di Storia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, gli aggettivi “dotta” e “grassa” sono da sempre l’uno il braccio destro dell’altro.
Bologna è “dotta” perché “grassa”, in quanto solo l’abbondante quantità di cibo poteva assicurare il nutrimento di una popolazione studentesca molto grande per l’epoca. È “grassa” perché “dotta”: la presenza massiccia in città di ragazzi provenienti da tutta Europa ha permesso che questi trasmettessero le loro esperienze gastronomiche, arricchendo e contaminando quelle bolognesi.
Lo studio importa cultura del cibo ed esporta un’immagine di sé forte. Questo fa nascere prima all’esterno, probabilmente nella Parigi del XII secolo, e poi all’interno della città stessa il mito di Bologna grassa.
 In questa città, ricca di osterie, taverne, ristoranti e bistrot, in via Urbana 7/F, all’incrocio tra il Collegio di Spagna e via D’Azeglio, a due passi da Piazza Maggiore, si trova la Trattoria della Santa, ideale per trascorrere tra un tortellino e un bicchier di vino, qualche ora in buona compagnia. Le due salette interne, il porticato esterno, i piccoli tavoli coperti da tovaglie a quadri, le sedie impagliate e pochi fronzoli sulle pareti hanno quel non so che di casa. Il personale è cordiale, dalla cucina arrivano voci di chi muove i fili da dietro le quinte e invitanti odori di arrosti e bolliti.















Sul menù piatti della cultura bolognese, la sfoglia della pasta fresca è tirata a mano, ci sono i tortellini in brodo, ottimi, tortelloni di ricotta al ragù, gramigna, lasagne verdi, abbondanti e molto condite. Per i secondi la cotoletta, gustosa, arrosti misti e baccalà.
La scelta può anche cadere su qualche piatto fuori menù, un polletto al forno con patate croccanti, in questi casi, non dispiace affatto. 
 Se non diffidate di un consiglio personale, allora, ordiante ad occhi chiusi tagliatelle ai funghi porcini e per secondo fegato ai ferri o burro e salvia, o una bella cotoletta alla bolognese. Poi mi direte cosa sono!
Buoni i dolci, da non perdere la coppetta di crema di mascarpone, una delizia, grassa, proprio come la città che fuori dalle quattro mura della trattoria continua a sfamare corpo e mente di tanti giovani bramosi di trovare cultura e buon cibo, se possibile, a prezzi modici.









Provincia: Bologna
Comune: Bologna
Indirizzo: via Urbana 7/F
Telefono: 051 330415
Chiuso: domenica
Orario: mezzogiorno e cena
Coperti: 50 + 20 esterni
Prezzi: 25 - 30 euro
Carte di credito: tutte


Anche in questo caso devo chiedere scusa, le foto le ho prese direttamente dalla pagina Tripadvisor dedicata alla trattoria.






lunedì 15 giugno 2015

Un ragù per pensare.

La cucina della nonna, le ricette della nonna, "buono peró quello che faceva mia nonna", nonna, nonna, nonna. Da anni ormai la nonna è entrata nelle cucine di tutti, chef e non, e fatica a venirne fuori.  
Ma chi è "la nonna "? Esiste davvero? Qual è la vera cucina della nonna? 
 
Il mio Professore Massimo Montanari (Il cibo come cultura, Editori Laterza, Bari, 2006, pp. 159-160) scrive: "le storie che abbiamo raccontato stanno a ricordarci che ogni cultura, ogni tradizione, ogni identità è un prodotto della storia, dinamico e instabile, generato da complessi fenomeni di scambio, di incrocio e contaminazione. I modelli e le pratiche alimentari sono il punto d'incontro tra culture diverse, frutto della circolazione di uomini, merci, tecniche e gusti da una parte all'altra del mondo [...] La ricerca delle radici, quando è fatta con metodo critico e non dietro la suggestione di impulsi emotivi, non giunge mai a definire un punto da cui siamo partiti bensì, al contrario, un intreccio di fili sempre più ampio e complicato a mano a mano che ci allontaniamo da noi. In questo intricato sistema di apporti e di rapporti non le radici ma noi siamo il punto fisso: l'identità non esiste all'origine, bensì al termine del percorso. Se proprio di radici vogliamo parlare, usiamo fino in fondo la metafora e raffiguriamoci la storia della nostra cultura alimentare come una pianta che si allarga a mano a mano che affonda nel terreno, cercando la linfa vitale sin dove riesce ad arrivare, insinuando le sue radici appunto in luoghi il più possibile lontani, talvolta impensabili. Il prodotto è alla superficie, visibile, chiaro, definito, siamo noi. Le radici sono sotto, ampie, numerose, diffuse: è la sotira che ci ha costruiti".
La cucina della nonna, come la "tradizione" (dal latino trado - ere: trasmettere, passare, donare, affidare, confidare, assegnare), è quella cosa che è arrivata fino a noi, quella cosa che tramandata di bocca in bocca arriva al presente mutando la sua forma. Letta nel pensiero come un discorso che guarda al passato, la tradizione (e la cucina della nonna) nasce nel presente ed è il risultato di ciò che l'uomo è riuscito a salvaguardare, è il Patrimonio. Le radici sono le origini, l'identità è ciò che contraddistingue e per questo motivo la tradizione è innovazione, è il frutto di quello che è stato creato e modificato per arrivare a noi.  
La cucina della nonna, dunque, è un'idea recente, costruita sulla ricerca d'identità e delle origini. È stata creata e modificata per giungere a noi e per essere l'espressione di una cucina abbondante, tipica e genuina,  la sublimazione alle mancanze che continuamente ci si trova ad affrontare. È un valore aggiunto che spesso si dà ai ricordi di una vita andata e che difficilmente tornerà.
Proprio perché difficilmente potrà essere rivissuta, la cucina della nonna sopravvive, cambiando faccia e adattandosi a mode, tempi e gusti. Muta mantenedo vive le caratteristiche che mettono in moto il treno dei ricordi. 


A proposito di ricordi, ieri per me è stata una giornata particolare. Ho aperto gli occhi e guardandomi allo specchio mi sono accorta che erano molto pesanti, malinconicamente tristi. Ho camminato a lungo e poi mi sono fermata a pensare. Volevo ascoltare per un'ultima volta le voci dei miei nonni e scorrendo la rubrica telefonica mi sono accorta che ho ancora i loro numeri di casa, numeri di telefoni che non suonano più, perché nessuno più potrà rispondere.  Lacrima.

È difficile davvero non farsi coinvolgere dai sentimenti quando si pensa a persone che hanno lasciato, a loro modo, qualcosa nella nostra vita. Anche io potrei dire di avere avuto una nonna cuciniera, associare a lei la mia idea della cucina di casa, ma se dovessi scegliere davvero un piatto che possa rappresentarla al meglio, in realtà farei molta fatica, troppi ricordi, troppe lacrime. 
 
Nei giorni più tristi, come quello di ieri, mettermi ai fornelli è quanto più di terapeutico possa esistere. Dalle lacrime vere e negate con la scusa della cipolla, ai sorrisi di gioia del rubare di nascosto con dito della crema pasticcera, la cucina è davvero un'ottima valvola di sfogo,e in questo periodo, ne ho davvero bisogno. 

Ho vogli di cucinare e di tagliatelle al ragù, ho voglia di una cucina lenta, che dia modo di riflettere, di pensare. Invito gli amici, tagliatelle al ragù per cena, è deciso. 

Di ragù ne esistono mille versioni, quello bolognese è stato "canonizzato" nel 1982, ma cosa dire di quello napoletano? Le ricette sono simili: sedano, carota, cipolla, macinato misto, vino, passata, lunghissima cottura. La differenza sostanziale consiste nel fatto che nella versione "sudista", che io amo molto e che preferisco, si aggiungono pezzi di carne interi di manzo, maiale o salsiccia che, una volta terminata la cottura della salsa, si tirano fuori e si mangiano per secondo. Una goduria. 
Ho optato per il bolognese, ma per restare un filino più leggeri, ho evitato di aggiungere alla base del soffritto la pancetta o il guanciale.

Ingredienti per quattro persone:

400 gr. di tagliatelle all'uovo Pastificio Garofalo
2 carote
1 cipolla 
1 coste di sedano
350 gr di carne macinata mista manzo/maiale
vino rosso per sfumare
2 bottiglie di passata di pomodoro Mutti
1/2 litro brodo di carne
Sale 
Pepe
Olio extra vergine d'oliva, 
Parmigiano Reggiano

Iniziate facendo un trito di sedano carota e cipolla e nel frattempo preparate del brodo di carne, mezzo litro (io in questo caso mi sono servita di quello granulare Star, per far prima). Fate scaldare in una casseruola un filo d'olio e buttateci dentro il trito di verdure. Abbassate la fiamma e fate appassire dolcemente per una decina di minuti. Passate adesso alla carne, aggiungetela alle verdure, alzate leggermente la fiamma e sgranatela bene. Versate del vino per sfumare (scegliete voi se bianco o rosso, io preferisco il rosso) e fate evaporare per bene. Io di passata ne ho aggiunta abbastanza, perchè volevo che avanzasse un po' di ragù per poterlo poi mettere da parte, ma comunque sappiate che il sugo deve ridursi tantissimo, più della metà del livello originale, quindi non abbiate paura, osate!
Aggiungete la passata, mescolate bene e iniziate a diluirla con il brodo. Abbassate  la fiamma, coprite e aspettate il bollore, rimestando di tanto in tanto. Quando sentirete i primi gluglu, lasciate il coperchio leggermente aperto, in modo che la salsa abbia modo di iniziare a restringersi. 

Prendetevi tempo, il ragù ve ne chiederà.
Io l'ho fatto andare per quattro ore e verso la fine ho regolato di sale e pepe.
Il ragù può essere preparato anche il giorno prima, basta solo riscaldarlo un po', ma se volete mangiarlo il giorno stesso, allora quando sarà arrivato alla giusta consistenza e avrà riempito tutte le stanze della vostra casa del suo inconfondibile profumo, fate bollire l'acqua per la pasta, salatela e buttate le tagliatelle che dovranno cuocere per 7 minuti. 
Scolate e condite la pasta in un bel vassoio da portata, una bella grattugiata di Parmigiano e Buon appetito!



martedì 9 giugno 2015

Una cacio & pepe.

In questi giorni ho decisamente poco tempo per dedicarmi al blog. Le lezioni del Master stanno per terminare, ci sono gli elaborati da consegnare e io devo ancora capire di che stage dovrò morire. Il problema principale è che sono un'eterna indecisa e forse troppo curiosa, ho la capacità di farmi prendere bene da qualsiasi cosa e questo mi porta ad avere spesso una gran confusione in testa. Ti prego Atena aiutami tu!

Detto questo e prima di correre in Sala Borsa dal mio amico David, voglio lasciarvi la ricetta di un piatto che amo molto e che di solito lascio preparare al mio barbuto del cuore. Semplice ma non del tutto perchè il buon risultato dipende dalla qualità del pecorino e dalla vostra bravura di renderlo cremoso e mantecare bene la pasta.

Oggi: CACIO E PEPE.

Piatto appartenente alla cultura gastronomica romana è composto da tre ingredienti: tonnarelli, pecorino romano e pepe, tanto pepe. C'è chi aggiunge panna, chi olio, e io... preferisco affidarmi alla bravura e alla romanità di uno chef che di santo ha anche il nome Arcangelo Dandini (se cercate nel web non sarà difficile trovare un suo tutorial). 

Bene, il tempo stringe e io devo quasi andare!

Ingredienti per 4 persone:

400 gr di pasta (a Roma usano tonnarelli o rigatoni, noi in questo caso abbiamo usato i mezzi rigatoni del Pastificio Cavalier Cocco)
150 gr di pecorino romano 
Acqua di cottura q.b.
Pepe nero q.b.

Mettete a bollire abbondante acqua salata e quando è il momento buttate la pasta. Nel frattempo in una ciotola capiente versate il pecorino grattugiato e una macinata di pepe, non troppo, mi raccomando.
Versate poco a poco sul formaggio un mestolo di acqua di cottura e amalgamate bene con un cucchiaio. Dovrete ottenere una crema soffice, aggiungete altro pepe e mescolare bene.
Quando la pasta sarà "al chiodo", un momento prima di "al dente", scolatela bene e buttatela nella ciotola. Amalgamate con cura e servite la vostra cacio e pepe nei piatti.






mercoledì 3 giugno 2015

Panza(S)nella

Ok, è vero, la pausa pranzo è appena passata. Si, è presto per pensare alla cena, ma io ho un'idea veloce da condividere con voi e lo voglio fare adesso. Il mio pranzo di oggi, colorato, fresco e leggero.

Finalmente anche qui a Bologna sembra che sia arrivata la "bella stagione" e, non so se succede anche a voi, ma ogni anno per me è sempre la stessa storia: la mia pigrizia è direttamente proporzionale all'aumento delle temperature, e quando lo stomaco inizia a farsi sentire mi trascino stile zombie dalla scrivania in cucina in cerca di qualcosa di sfizioso e non impegnativo.
All'apertura del frigo e alle grida di "fame" dello stesso, inesorabilmente vuoto, mi accorgo di una timida melanzana che fa capolino dagli abissi dell'ultimo scompartimento. Accanto lei: un pomodoro, un barattolino di pomodori secchi sott'olio, mezza cipolla rossa, una banana e del prezzemolo. OTTIMO, qualcosa ne verrà fuori! Eliminando a priori la banana, mi soffermo su melanzana, pomodoro, cipolla... melanzana, pomodoro, cipolla... melanzana, pomodoro, cipolla. Idea: PANZANELLA!

Tutti sanno che la Panzanella è uno dei piatti da inserire nell'albo delle tipicità fiorentine e che con tutta probabilità porta questo nome per l'unione di pane e zanella (la zuppiera) o più semplicemente per panzana (pappa).

La diatriba sugli ingredienti che compongono il piatto va avanti da secoli: chi lotta per il solo pane toscano, cipolla rossa, pomodoro; chi aggiunge olive, formaggio; chi taglia tutto a cubotti e chi sostiene che sia una vera e propria pappa. Io non sono in grado di poter dare una risposta, ma devo ammettere che avevo solo del pane azzimo in dispensa, la cui unica caratteristica in comune col toscano è: l'essere insipido. Per il resto è sottile, croccante e di lieviti e molliche non ne vuol proprio sentir parlare. Io lo mangio anche a colazione, con del miele o della marmellata è leggero e gustoso. Provatelo!


A questo punto non mi resta che lasciarvi la mia "Panzanella degli avanzi" e se non dovesse piacervi il nome, liberi di chiamarla come vi pare! ;)

Ingredienti per 4 persone:
4 o 8 fette di pane azzimo (dipende da quanto sono grandi e dalla fame che avete!)
2 o 4 (stesso discorso di sopra) pomodori di San Marzano
1 melanzana (se è piccola prendetene 2)
1 cipolla rossa (meglio di Tropea)
4 filetti di pomodori secchi sott'olio
succo di mezzo limone
Olio EVO
Sale q.b.
Peperoncino
Pepe

Realizzare questa ricetta è davvero molto semplice. Per prima cosa lavate bene tutte le verdure, tagliate a fettine sottili la cipolla rossa e immergetele in una soluzione di acqua (mezzo bicchiere) e il succo di mezzo limone. Tagliate a cubotti le melanzane (quella che ho utilizzato era tenera e con poca polpa, quindi ho evitato di metterla sotto sale) e fate scaldare in una padella antiaderente un filo d'olio. Quando è caldo buttateci la melanzana, abbassate la fiamma, regolate di sale e coprite con un coperchio. Nel frattempo tagliate i pomodori e privateli dell'acqua di vegetazione.
Tagliate anche i pomodori secchi che avrete ben scolato dall'olio.
A cottura ultimata delle melanzane, quando si sono ben dorate, spegnete il fuoco ed iniziate a comporre la panzanella. Su un piatto da portata adagiate le fette di pane azzimo su cui farete cadere la dadolata di melanzane. Aggiungete man mano i filetti di pomodori freschi, secchi, le fettine di cipolla ben sgocciolate e qualche fogliolina di prezzemolo.
Non resta che condire con filo d'olio extra vergine, sale, peperoncino e pepe.

Buon appetito!


domenica 31 maggio 2015

Hua Cheng, il mio posticino che...

Da un mese quotidianamente si sente parlare di Milano, Expo 2015, Fuori Expo e tutto ciò che è annesso e connesso al grande evento. Io ci sono già stata una volta, il secondo giorno dall'apertura, ma lungi da me volerci mettere becco per ora. Confido in una seconda visita più approfondita e verso settembre. 
Volendo restare sul tema del cibo "esotico", cucina internazionale e come si nutre il pianeta, da Rho, faccio un salto in una strada super popolata di Milano, via Paolo Sarpi, che cammina dritta per circa un km da Porta Volta. Sin dagli inizi del '900 la zona è meglio conosciuta come la Chinatown di Milano per la massiccia immigrazione di famiglie provenienti dal Sud - Est della grande Cina, dalla regione dello Zhejiang.
La famiglia Hu, trasferitasi a Milano dalla città di Wenzhou, ha deciso di aprire in via Giordano Bruno 13, proprio dietro P. Sarpi, una piccola trattoria senza pretese, dai muri bianchi, senza le solite lanterne cinesi e soffitto rosa abbagliante, forse troppo elaborato per il resto del locale. 

Pochi tavoli, forse solo sei, in cui si mangia gomito a gomito col proprio vicino e, se come me, non si è proprio esperti dell'utilizzo delle kuàizi, ovvero delle bacchette che i popoli orientali sono soliti usare al posto delle nostre troppo semplici posate, ecco, si rischia di impataccare non solo i propri abiti, ma anche quelli degli altri...
Però, quanto è bello mangiare stretti stretti, magari col proprio partner, vicini vicini?
La cucina degli Hu è semplice, non troppo pesante e schietta, proprio come loro, persone piuttosto taciturne e dalla risposta secca, che con velocità e serietà preparano le specialità della loro regione d'origine.
A differenza di quella pechinese questa è una cucina poco piccante, giusta.
Il menù è di poche pagine plastificate, ma la scelta dei piatti è ampia: maiale, anatra, vitello, verdure, gamberi, polipi, seppie e meduse! Si, anche le meduse. 
Non capito poi così spesso a Milano eppure questo ristorantino è il mio punto di riferimento quando ho voglia di mangiare bene e spendere poco, è il posto del cuore insieme al Brutto Anatroccolo, trattoria storica di cucina milanese sui Navigli.
L'ultima volta che ho avuto il piacere di sedermi ad uno dei tavolini degli Hu era il mio compleanno e per un'occasione speciale ho chiesto solo piatti a base di pesce, è fresco, arriva in cucina ogni mattina, quindi banditi gli involtini primavera (buoni comunque) e riso cantonese, dimenticateli!
Nella trattoria Hua Cheng, questo il nome del locale, ci si può sbizzarrire nello sperimentare piatti meno comuni a partire dagli antipasti: il toufu gan (tofu secco) servito saltato in padella con cipollotti, il taro, le verdure senza cuore, i ravioli alla griglia (una porzione è da 8 pezzi e costa circa 3 euro), gli gnocchi di riso con carne secca, e per i più temerari la lingua d'anatra e gli spaghetti di riso con intestino e sanguinaccio.
Dietro suggerimento ho preso la zuppa ai frutti di mare, una delizia, servita in grandi scodelle con brodo caldissimo e la mian,  tagliatelle cinesi di farina fatte a mano stirate e ripiegate, dallo spessore diverso, sode, saporite, buone.
Per i non amanti del pesce, c'è il brodo con spuntatine di maiale, trippa o solo verdure. 
Anche i secondi si fanno rispettare, diverse volte ho chiesto l'anatra arrosto, croccante all'esterno e morbida all'interno ed ho trovato eccellenti anche le seppie al peperoncino e la frittura di calamari. Saporiti e abbondanti da poterci mangiare tranquillamente in due.
Il costo? Irrisorio, si arriva a spendere in due 30 euro per una cena completa, con vino rosso della casa!
Almeno una volta nella vita bisogna concedersi il "lusso" di assaggiare la cucina della trattoria Hua Cheng, perché si mangia bene e perché è un luogo in cui nelle sere in cui niente è programmato si possono invitare amici e amori con la scusa del "conosco un posticino che...", provare per credere.

Info:
Trattoria Hua Cheng
Via Giordano Bruno 13, Milano
Tel: 023451613
Aperto: tutti i giorni dalle 11 alle 24
Costi: 10/15 euro

Le foto che riporto qui di seguito le ho prese dalla pagina facebook del ristorante, ringrazio gli autori, non me ne vogliate:
https://www.facebook.com/pages/Trattoria-cinese-Hua-Cheng/130482827007108?ref=br_rs






mercoledì 20 maggio 2015

Un cavolo a merenda

"Andare a ingrassare i cavoli", "andare a piantar cavoli", "farsi i cavoli propri", "non capire un cavolo", "portare il cavolo in mano e il cappone sotto", "starci come una cavolo a merenda", quanti modi di dire si conoscono che hanno come soggetto o complemento il suddetto "cavolo"?. 
Ma che c'avrà mai fatto di male? Eppure già l'imperatore Diocleziano nel 305 d.C., ritiratosi a vita privata nel suo meraviglioso palazzo a Spalato, e richiamato a Roma e alla vita politica, si era elegantemente rifiutato dicendo che il prendersi cura dei suoi cavoli lo rendeva più felice di qualsiasi impero. Sempre loro, insieme agli agrumi, altri frutti carichi di vitamica C, salvarono diversi marinai alle prese con la scoperta del "nuovo mondo" dallo scorbuto.

Che sia fiore, nero, cappuccio, viola, broccoletto, verde, romanesco, rapa, portoghese, cinese, rosso, il cavolo fa parte della famiglia delle Brassicaceae o Cruciferae, piante distribuite in tutto il mondo e che raggiungono il massimo sviluppo della loro biodiversità nel bacino del Mediterraneo. 
Privi di grassi e ricchi di vitamina C, acido folico, fibre, potassio e alcune sostanze antitiroidee e protettrici contro i tumori intestinali, questi hanno un elevato potere saziante (e in previsione dell'estate, chi è che non sta tentando di mettersi a dieta?) e ben si prestano ad essere utilizzati in cucina. 

Molto spesso però i cavoli non vengono apprezzati da grandi e piccini, soprattutto per il cattivo odore che rilasciano durante la cottura. Tutta colpa dello zolfo che contengono al loro interno, ma mia madre mi ha insegnato che aggiungendo un pezzetto mollicoso di pane imbevuto di aceto all'interno della pentola in cui si sta bollendo il cavolo, quella "puzzetta" dovrebbe sentirsi di meno! 
 Altri modi per cucinare i cavoli? Dipende dalla tipologia scelta, ma se si prende come esempio il candido cavolfiore,  spazio alla fantasia. Lesso, a vapore, fritto, al forno, crudo...

Io oggi vi propongo una ricetta proprio a base di cavolfiore e vi assicuro che per il modo in cui verrà cotto, non avrete nessun tipo di odore sgradevole in giro per casa, anzi, assomiglierà piuttosto ad un arrosto, completamente vegan!
La ricetta non è mia, anzi, l'ho copiata dallo strabusato sito del cuoco Jamie Oliver (www.jamieoliver.com), ma l'ho un po' rivisitata! A dire il vero ho eliminato un bel po' di aglio che la ricetta prevedeva. Amo l'aglio, l'adoro, ma non ho ancora intenzione di diventare l'antidoto ambulante per simpatici vampiri.  

Si tratta di un piatto particolare e tra poco capirete perchè, speziato, profumato, leggero e senza grassi!

Ecco dunque il mio CAVOLO INTERO ARROSTO

Ingredienti per 2 o 4 persone (dipende se lo si prepara come piatto unico o come contorno!)

Un cavolfiore intero 
2 spicchi di aglio
un barattolo di pelati 
un cucchiaino di paprika dolce
il succo di un limone e la sua buccia grattugiata
mandorle a lamelle per guarnire
mezzo bicchiere di vino bianco
sale
pepe
prezzemolo
olio extra vergine d'oliva 

Tempi: 2h

Potete scegliere da dove iniziare, ma vi consiglio di stabilire il forno statico a 180°. Io preferisco impostarlo piuttosto ad una temperatura meno elevata e dare spazio alla cottura, che cuocere con minor tempo e rischiare di ritrovarmi il cavolo crudo all'interno. Mettetevi in testa che state preparando un arrosto, quindi, tempo al tempo.
Bene, detto questo, passate alla fase più drammatica di tutta la ricetta, l'aglio. Come vi dicevo prima, la ricetta originale prevede ben quattro spicchi di aglio (per carità, voi siete liberi di fare come volete) ma io ho dimezzato la dose per i motivi che ho già spiegato. Prendeteli, sbucciateli, tagliateli a metà, privateli dell'anima (che cosa terribile!) e schiacciateli, dovrete renderli una purea e se lo avete in casa, utilizzate uno di quei fantastici schiaccia-aglio che evitano l'appestamento delle mani per giorni e giorni, altrimenti, andateci di coltello. Mescolate la cremina di aglio ottenuta ad un cucchiaio di paprika dolce e fate riposare. Nel frattempo eliminate le foglie più esterne e dure del cavolo (io quelle più tenere e piccine di solito le tengo), lavatelo, tagliate una parte della base, quella più coriacea. Un taglio netto e preciso, dritto, perchè poi il cavolo in cottura dovrà stare dritto e avrà bisogno di un appoggio! Praticate con un coltello lungo e affilato un incisione profonda che vada all'interno del cuore del cavolo a forma di croce e mettetelo da parte. Passate adesso a grattugiare la buccia del limone non l'ho specificato tra gli ingredienti perchè ormai una cosa che sanno anche le pietre, ma quando si tratta si tratta di cucina, il consiglio è di usare limoni non trattati, e spremetene il succo. Tenete da parte anche questo. 
Riprendete il cavolo e cospargete tutta la sua superficie con la cremina di aglio e paprika, se non volete sporcarvi le mani potete usare un guanto in lattice usa e getta.
A questo punto prendete una teglia da forno, meglio se antiaderente e adagiateci il cavolo che ormai avrà un colore rossastro, bellissimo. Aggiungete, versandolo proprio sopra il cavolo e in modo che scenda fino alla base, il succo del limone, l'olio (non abbiate paura di osare) e sulla base stessa il bicchiere di vino. Salate, pepate e coprite per bene con della carta alluminio. Sistemate la casseruola in forno e "fatevi i cavoli vostri" per un'oretta. 
Passato il tempo, per casa dovreste già sentire un fantastico odore di arrosto al limone, tirate fuori dal forno il cavolo, togliete momentaneamente la copertura e aggiungete qualche filetto di pelati, regolatevi in base al vostro gusto e aggiugete un po' di sale. Coprite di nuovo e mettete in forno per un 10 minuti (nel frattempo potete fare un test di cottura del cuore del cavolo. Infilzateci un coltello appuntito, se entra facilemte siete a buon punto, se fate fatica, ricoprite e dategli più tempo). Tirate di nuovo fuori dal forno, scoprite e lasciate che il pomodoro si addensi un pochino e che il cavolo inizi a fare una leggera crosticina. Due minuti prima di sfornare, aggingere sulla superficie la scorza grattugiata del limone e le lamelle di mandorla. Quando queste saranno colorate e non bruciate, tirate fuori tutto.
Il cavolo è pronto, basta aggiungere prezzemolo tritato fresco, una spolverata di pepe e servire a tavola.
Tagliate in 4 parti.





 Bbono, no?



sabato 16 maggio 2015

#iocestoaprovà e tu?

Cuori di Tours
Ciao, da quanto tempo...
Come punizione un minuto di silenzio per me, per aver abbandonato questo neonato progetto in cui io e forse anche qualcuno di voi aveva creduto. Non che io abbia perso la fede e la voglia di fare in cucina, ma un blog, per tenerlo come si deve, richiede tempo, tanto tempo, e io negli ultimi mesi mi sono ritrovata ad essere abbastanza impegnata, la mia testa è abbastanza impegnata.
No, non son affatto diventata una donna in carriera, anzi, ho appena compiuto 30 anni e sono più squattrinata di prima, addirittura indebitata e spaventata, ma felice! Racconto qualcosina? Che dite?
Bene, parto da luglio scorso quando ho scritto il mio ultimo post (che vergogna!).
Sono cambiate diverse cose da quel momento, ero a Roma, lavoricchiavo, sempre senza una lira e molto insoddisfatta. I miei risvegli ormai erano diventati degli incubi, con gli occhi ancora appiccicaticci dal sonno, ogni mattina, alla stessa ora, quel simpatico nodo in gola tornava a prendere possesso del mio respiro. Mi sentivo stanca, affannata, poca voglia di fare, nervosa. Ero intrattabile (non che adesso il mio carattere sia fantastico, ma forse qualcosina sta migliorando), credetemi, e chi mi è stato accanto, chi ha avuto la sciagura di condividere con me lo stesso tetto, potrebbe raccontarne delle belle. 
Volendomi liberare dalla morsa dell'insofferente insoddisfazione, mi sono fermata un attimo a riflettere, mi sono presa qualche giorno, sono tornata in Abruzzo. Sapevo che la mia montagna e il mare mi avrebbero reinsegnato a respirare. 
Agosto, primi giorni del mese, Roberto in Sicilia (beato lui!) a girare uno spot, siamo rimasti d'accordo che lo raggiungerò per il fine settimana e per approfittare dei magnifici mercati di Catania. 
Proprio in quei giorni concentro al massimo la mia attenzione su me stessa, mi chiedo e richiedo come riprendere in mano la mia vita. Penso a quando l'anno prima stavo cercando dei master di specializzazione sulla storia e cultura dell'alimentazione, ricordo l'entusiasmo e la curiosità che mi aveva acceso uno di questi in particolare, Bologna, Alma Mater, Storia e Cultura dell'alimentazione, Massimo Montanari.
Torno su quel sito, leggo il bando, lo sfoglio velocemente per capire se sono ancora aperte le candidature, si, termine massimo 26 agosto. Guardo la quota annuale delle tasse da pagare per poterlo frequentare e lì mi scoraggio un po', "non potrò mai farlo" - penso. 
L'anno prima era stata la stessa cosa, avevo sfogliato il bando, mi ero gasata tanto, troppo, quella cifra e la perdita della speranza, ma questa volta no. Certo, il primo pensiero è stato quello di togliermi subito dalla mente quell'idea stupida ed economicamente impossibile e cercare altro. 
A.A.A. barista cercasi! No non ce la faccio, non un'altra volta, o almeno, per adesso no!
Devo rifletterci un attimo e nel frattempo prendo un aereo che mi porta a Catania. Appena arrivata e assalita dalla calura siciliana, parto subito per un giretto esplorativo della città insieme a Rob. Giriamo, parliamo, e per prima cosa gli racconto della mia idea del master, chiedo un consiglio, espongo le mie paure e la mia incapacità di poter sostenere una spesa economica del genere. Colgo  nei suoi occhi una piccola scintilla di speranza, per me, perché anche lui e soprattutto lui, forse, per troppo tempo mi aveva vista tornare a casa con gli occhi gonfi di lacrime e senza fiato. Mare e sole, arancini, mercati, e granite a colazione prese dal vecchietto del benzinaio sotto casa mi rimettono di buonumore.
Torniamo in Abruzzo, mi restano pochi giorni per inoltrare la mia domanda d'ammissione e parlarne bene con i miei, decidere cosa è meglio fare e come, qualora fossi rientrata in graduatoria, affrontare la spesa futura.
I miei genitori sono operai e mio padre sono più di quarant'anni che si spacca la schiena in fabbrica, hanno cresciuto me e mio fratello come meglio hanno potuto e mi hanno fatta studiare, laureare. Se avessi potuto non avrei chiesto loro un ennesimo sforzo, anzi, a 30 anni, mi piacerebbe poter iniziare a vedere qualche soldino e tornare a casa con un mazzo di fiori freschi per la mia mamma e non con una busta di panni sporchi! 
Ne parliamo insieme, ci ragioniamo a fondo, inaspettatamente non mi dicono subito di no, forse ci credono anche loro. Al momento di decidere, mio padre e mia madre, ai quali sarò eternamente grata, mi dicono che i soldi non ci sono, i loro stipendi non bastano per pagare master e mantenermi a Bologna, ma che potremmo chiedere in banca, magari c'è qualche soluzione per gli studenti. 
Eccoci davanti al Direttore, spiego la mia situazione, la mia idea, chiedo se posso autofinanziarmi, ovviamente indebitandomi, ma non importa, voglio fare questo master, troverò un modo per restituire i soldi, dopo, alla fine di tutto, a costo di fare qualsiasi altro tipo di lavoro. 
In banca non mi dicono di no, e figuriamoci... Così con un debitino sulle spalle, ma con il cuore gonfio di gioia, compilo la mia domanda e in piena frenesia la spedisco all'ufficio master dell'Alma Mater a Bologna. Passa del tempo e io controllo ogni santo giorno la mia casella di posta per vedere se è stata pubblicata la graduatoria. Sono i primi giorni di ottobre, ed eccola che arriva. Evviva, ci sono anche io tra i cinque ammessi!
Bologna
San Giovanni in Monte, Bologna
In men che non si dica ci comunicano che di lì a poco sarebbero iniziate le lezioni ed io ovviamente non sapevo dove andare, ma Rob viene in mio aiuto. Parliamo con un suo amico che per i primi tempi decide di ospitarmi. Arrivata a Bologna, tutto mi sembra ancora un sogno, in un mese la mia vita è già cambiata molto, prima Roma, adesso Bologna, il Master Europeo in Storia e Cultura dell'Alimentazione, i professori, e l'Alma Mater, l'università più antica d'Europa, carica di storia e di storie che le sue mura potrebbero raccontare. 
Primo giorno di lezione, Massimo Montanari, Antonella Campanini, ritrovarmeli di fronte mi mette in imbarazzo; ci fanno presentare, raccontare un po' le nostre storie e io per sommi capi spiego la mia, mi commuovo, partono due lacrime e la Prof.ssa Campanini sa perché. Mi ha seguita in tutto il mio percorso d'iscrizione, sa che sacrificio ho chiesto a me e ai miei genitori, mi guarda dritta e sorride. Adesso è il loro momento, ci spiegano come si svolgerà il master e ci confermano che di lì a poco saremmo partiti per la Francia, per l'Università Rabelais di Tours. Due mesi in Francia a seguire lezioni e convegni. Tutto questo mi impanica un po', ma mi carica anche.
Finiti i giorni di lezione a Bologna, faccio un salto per tornare a casa e il 3 novembre sono già in Francia. 
Tours è una piccola città nel cuore della valle dei castelli della Loira, un isolotto tra due fiumi. Fredda, umida, ma con le strade dritte e pulite che odorano di pane appena sfornato a tutte le ore del giorno. Iniziamo a seguire le lezioni, conosco meglio i ragazzi che sono con me, Muriel la peru-brasiliana e David, il tedesco. Compagni di studio e di vita.
In Francia sto bene, conosco tantissime persone, il gruppo di ragazzi che segue il master lì è estremamente eterogeneo: brasiliani, taiwanesi, turchi, e naturalmente francesi. Un melting-pot che si fa vero, concreto e unito, soprattutto quando a turno decidiamo di preparare delle cene a tema, serate che ci hanno dato la possibilità di scoprire piatti tipici provenienti da quasi tutti gli angoli del pianeta e di bontà straordinaria. 
Caattedrale di Saint-Gatien, Tours
Convegno IHECA, Tours

Due mesi in Francia passano presto, tra lezioni, convegni organizzati dall'Istituto Europeo di Storia e Cultura dell'Alimentazione, giri per i mercati contadini in cui le opportunità di conoscere il vero cibo di strada francese sono tante e pinte di birre come se non ci fosse un domani, arriviamo al 21 dicembre e al ritorno in Italia. Natale, il 2015, anno nuovo vita nuova, si spera, io sono ancora un po' confusa, sta succedendo tutto troppo in fretta.

A febbraio riprendono le lezioni, trovo una stanzina tutta per me in una piccola casa in via mascarella, cuore della movida universitaria, forse anche troppo movimentata! Lezioni: il Prof. Capuzzo e il suo corso di Storia dei consumi alimentari; il Prof. Ruozzi con Letteratura e gastronomia; le lezioni su "Comunicare il turismo gastronomico"; l'archeo/antropolodo Domenici che ci ha incantati con i suoi racconti di vita archeologica in Messico e le cucine indigene d'America e il sancta sanctorum, colui che è santo in sommo grado e uomo di grande venerazione, Alberto Capatti e le sue emozionanti lezioni sulla Storia della cucina in età contemporanea. Ma è solo maggio e fino a giugno ne vedremo ancora delle belle!
Loira all'alba, Tours

Ecco, tutto questo blablabla per dire cosa, niente! Solo che nella vita ci vuole un po' di coraggio, bisogna osare. Io l'ho fatto e per il momento sono ancora abbastanza presa bene. Sto facendo sacrifici, è vero, i miei anche, non ho una lira bucata in tasca allo stesso modo, ma ci sto provando. A fine lezioni dovrò fare uno stage e in questi giorni sto cercando di capire dove andare e poi discutere la tesi. Vorrei trovare qualcosa che mi riporti anche un po' vicina alla terra, alla ricerca, alla riscorperta, valorizzazione. Quegli stessi elementi che diversi anni fa mi hanno fatto scegliere l'archeologia come primo step della vita. Ma devo anche valutare ciò che da quel momento in poi sarà il mio futuro, mi piacerebbe che qualche porticina inizi ad aprirsi anche per me, che di sacrifici ne sto facendo tanti... Almeno per sdebitarmi! ;)

Anzi, se avete idee da proporre, io sono tutta orecchie...

Forse il post è un po' lunghetto, forse vi scoccerà, ma mi fa piacere condividere con quanti di voi vorranno leggerlo, quello che ho combinato in questi mes e anche per rispondere a quelle poche persone che diverse volte mi hanno chiesto che fine avesse fatto il blog. 
Non so quanto riuscirò a imoegnarmi costantemente nei prossimi mesi, ma tenterò.
Oltre ai miei genitori per le loro garanzie, devo ringraziare anche diverse persone amiche: Marialucia, Clara, Francesca, Eliana e Massimo che mi hanno sempre supportato e sopportato. Grazie per non avermi fatto sentire una pazza per quel che stavo per fare e poi Roberto, che da un po' ormai sta dietro ai miei sbalzi d'umore, alle mie paturnie, alle mie ansie economiche e a tutto il resto! Grazie. 

Focaccia di Tours

Formaggi francesu

Mercati contadini, Tours

Salone del libro gastronomico, Tours

Pinte, Tours

Terrine francesi e Rob, Tours

Vini della Loira, Tours